La Quarantène, nostalgia della tradizione di Monte Sant'Angelo - NOC Press

La Quarantène, nostalgia della tradizione di Monte Sant'Angelo


Pubblichiamo con piacere un testo con foto pervenuto presso la nostra Redazione a cura di Alessandro Azzarone, Francesco Le Noci e Martina Masulli della redazione giornalistica Istituto Comprensivo “Tancredi-Amicarelli”

«Se dovessimo dare il giusto titolo al nostro articolo non potrebbe che essere: “Nostalgia della tradizione”.

Una strega o una bambola penzola in piazza, giorno e notte, in balia del vento. Il suo abito scuro, inquieta e spaventa. È lì, ad attendere un’orribile fine. Da questa constatazione siamo partiti, perché solo la tradizione può raccontare la sua genesi ed il suo mito.

È attraverso questa rappresentazione-tradizione che la comunità montanara dispiegava il suo modo di vivere le ancestrali paure per una possibile scarsità di cibo.

I nostri antenati, vivendo secondo i canoni della civiltà contadina, sentivano, spiritualmente e religiosamente, nel loro animo la presenza di Dio. Gente che percepiva il Sacro attraverso il suo continuo contatto con la Natura, in conseguenza della sua attività agricola, pastorale, artigianale e domestica.  

Nella civiltà contadina, al centro di ogni strada urbana veniva appesa un’inquietante bambola, denominata Quaranténe. La goffa e minacciosa bambola rappresentava il rapporto che si stabiliva con i defunti, affinché i raccolti fossero copiosi.

Durante la semina, ogni contadino poneva sotto terra un ramoscello di ulivo benedetto. In primavera, con i fuochi sacri del 18 marzo, in onore di Demetra, attendeva di essere distrutta a colpi di fucile il Sabato Santo, simboleggiano l’inverno. Si trattava di pupazzi di stoffa fatti con stracci in disuso con la stessa tecnica con  cui venivano confezionate le bambole, come ricorda  il maestro di arti e tradizioni popolari Domenico Palena. Anzi, erano delle vere bambole, “pupe”, aventi nella mano un fuso con la lana. Erano appese in alto ad un filo teso fra due punti della strada e tenute sospese per tutto il tempo della Quaresima, da cui deriva il loro nome, fino al sabato Santo, quando, al suono delle campane che annunciavano la resurrezione, venivano sparate a colpi di fucile dagli uomini di casa. La nostra gente aveva elaborato una filastrocca che accompagna la configurazione mitico-rituale della Quaranténa: “Quaranténe  muse de chéne t’a mangéte la carne u chène so’ serréte li vucciarìje e pe’ quarantasette díje”.

 La trasgressione della Quaranténe era l’aver mangiato carne durante la Quaresima, per giunta di cane. Secondo il novantenne Matteo Guerra: “Le parti del muso, ma anche la carne di questo animale, non erano buoni da mangiare, per giunta, il cane era considerato sporco”.

 A Monte Sant’Angelo, durante la Quaresima era aperta una sola macelleria per il fabbisogno dei  malati. Ragioni sacre e profane che inducevano gli uomini del tempo passarlo ad agire: la Quaranténa veniva sparata il giorno del Sabato Santo.

Un’altra funzione utilissima ai Montanari era quella di fungere da calendario della Quaresima, se si tiene conto dell’elevato numero di analfabeti e dell’assenza, nelle umili case della povera gente, di calendari e orologi.

Sotto i piedi della Quaranténa veniva attaccata una patata di piccole dimensioni lungo la cui superficie erano conficcate sette penne di gallina, ognuna delle quali indicava il tempo di una settimana quaresimale.

Le Quaranténe venivano sparate anche in occasione dell’accensione delle fanoje in cui si celebrava l’arrivo imminente della primavera con i fuochi sacri.

Non mancano testimonianze di chi  ha confermato la coincidenza dell’accensione dei fuochi con la sospensione della Quaranténa. “Al momento degli spari -sostiene Matteo Guerra- donne e bambini, in casa, con il mattarello, battevano cassetti, mobili e letti, affinché gli spiriti dei defunti maligni uscissero dalla casa e restasse solo la santa benedizione”.

Perché questo fantoccio doveva essere appeso ad un filo e penzolare per le strade con un bambolotto imbracciante la fisarmonica con le spalle coperte da un mantello e la testa da un cappuccio lungo e nero?

“Il bambolotto -sostengono gli anziani intervistati- stava ad indicare la tentazione al peccato”.

Le loro origini, forse, risalgono ad un mito greco?

Il prof. Antonio Nasuti scrive in “Garganostudi” che nella civiltà greca si raccontava di un vecchio giardiniere di nome Icario che viveva con la giovane figlia Erigone. Dionisio andò a fargli visita in incognito. Fu accolto con dignitosa e sollecita ospitalità e volle ricambiare con un dono. Così, quando Erigone andò a mungere il latte di capra per l’ospite, Dionisio la fermò e offrì, in sostituzione del latte, una bevanda sconosciuta, spiegando che quel succo aveva il potere di lenire le sofferenze, di esaltare i sensi e, nello stesso tempo, di placarli: il vino. Icario imparò, quindi, a coltivare la vite e un giorno regalò una giara del suo nuovo prodotto a dei pastori, che pascolavano il gregge nei boschi di Maratona. L’effetto di ebrezza provato indusse i pastori a ritenersi vittime di un sortilegio e, perciò, uccisero Icario seppellendo il corpo in un pozzo sotto un pino.

Il cane di Icario, Maira, che aveva assistito alla scena, guidò Erigone alla tomba del padre, che, per giorni e settimane, errante e muta per la disperazione, aveva cercato il genitore scomparso. Erigone scoprì il cadavere di Icario, lo seppellì e sotto l’albero di pino  vi si impiccò sul ramo più alto. Il cane vi si accovacciò vicino e si lasciò morire. Subito dopo la morte di Erigone, intanto, le vergini attiche furono colpite da mania suicida  e si toglievano la vita per impiccagione. Consultato l’oracolo di Delfi, predisse che l’epidemia di suicidi si sarebbe fermata se fosse stata istituita una festa in onore di Erigone, l’impiccata. Durante tale festa, chiamata delle aiôra, le fanciulle si lasciavano dondolare su altalene appese ai rami degli alberi. Aiôresis è appunto l’altalena. Ai rami degli alberi venivano appese anche delle maschere, che, al soffio del vento, giravano su se stesse.

Il simbolismo aiôresis, con le sue bambole impiccate agli alberi, era un rito di fertilità della terra. Il nome di Erigone, infatti, significa “figlia di contesa”.

Con il dondolare della Quranténa  e del bambolotto si ricorda, anche, il destino precario delle adolescenti alla soglia della maturità.

Un auspicio, quindi, non solo ad un abbondante raccolto, ma, anche, ad una copiosa figliolanza delle giovani spose.

Sarebbe utile che il rito della Quarantèna preservi il passato per metterlo a disposizione del futuro dal momento che si vive schiacciati in un eterno presente, senza memoria storica».

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